Radioterapia ipofrazionata nel tumore della mammella. Si utilizzano dosi maggiori per singola frazione, con un numero ridotto di frazioni totali al fine di evitare potenziali sequele ai tessuti sani che sono maggiormente esposti al danno tardivo. Potrebbe essere più efficace rispetto al frazionamento convenzionale.

//Radioterapia ipofrazionata nel tumore della mammella. Si utilizzano dosi maggiori per singola frazione, con un numero ridotto di frazioni totali al fine di evitare potenziali sequele ai tessuti sani che sono maggiormente esposti al danno tardivo. Potrebbe essere più efficace rispetto al frazionamento convenzionale.

Radioterapia ipofrazionata nel tumore della mammella. Si utilizzano dosi maggiori per singola frazione, con un numero ridotto di frazioni totali al fine di evitare potenziali sequele ai tessuti sani che sono maggiormente esposti al danno tardivo. Potrebbe essere più efficace rispetto al frazionamento convenzionale.

FOCUS ON SENONETWORK:

IPOFRAZIONAMENTO NELLE NEOPLASIE MAMMARIE

 

 

COORDINATORE:

Antonella Ciabattoni, AIRO

 

AUTORI:

Carlo Cabula (Cagliari) ANISC

Isabella Castellano (Torino) SIAPEC

Lucia Da Ros (Aviano) AIOM

Fiorenza De Rose (Ospedale Santa Chiara, Trento) AIRO

Massimo Grassi (Bergamo) ANISC

Bruno Meduri (Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena) AIRO

Sandra Orrù (Cagliari) SIAPEC

Fabio Puglisi (Udine/Aviano) AIOM

Rubina Manuela Trimboli, SIRM

 

 

 

 

 

INDICE

 

Introduzione

  1. Trattamento ipofrazionato della mammella in toto

– Carcinoma invasivo in stadio iniziale

– Carcinoma duttale in situ

– Ruolo del boost

  1. Irradiazione locoregionale
  2. Integrazione con le terapie sistemiche
  3. Irradiazione parziale della mammella (PBI)
  • Ruolo del patologo (definizione delle caratteristiche istologiche e biomolecolari delle pazienti candidabili a PBI)
  • Ruolo dell’imaging (definizione delle caratteristiche di imaging delle pazienti candidabili a PBI)
  • Ruolo del chirurgo (chirurgia oncoplastica e implicazioni nella identificazione dei volumi da irradiare)

 

Bibliografia

NB: Ove possibile in quanto supportate da adeguata letteratura, sono state inserite le raccomandazioni cliniche con la qualità globale dell’evidenza secondo il sistema SIGN.

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

La chirurgia conservativa seguita da radioterapia rimane il gold standard nel trattamento delle neoplasie mammarie in stadio precoce. [1]. E’ stato dimostrato che le cellule neoplastiche della mammella sono più sensibili all’effetto della dose per singola frazione rispetto ad altre neoplasie, con efficacia maggiore per elevata dose/frazione. Dati radiobiologici infatti dimostrano che queste cellule sono caratterizzate da un valore di α/ß di circa 4 Gy, che favorisce la risposta alla radioterapia [2,3].

Di conseguenza l’ipofrazionamento, che utilizza dosi maggiori per singola frazione, con un numero ridotto di frazioni totali al fine di evitare potenziali sequele ai tessuti sani che sono maggiormente esposti al danno tardivo dopo elevate dosi/frazione, potrebbe essere più efficace rispetto al frazionamento convenzionale. [4].

Ad oggi sono molti gli schemi di ipofrazionamento della dose impiegati per il trattamento radiante delle neoplasie mammarie: essi hanno per lo più dimostrato risultati sovrapponibili in termini di controllo locale e di tossicità a lungo termine.

 

 

  1. Trattamento ipofrazionato della mammella in toto
  • Carcinoma invasivo in stadio iniziale

L’irradiazione adiuvante della mammella è parte integrante del trattamento delle pazienti affette da tumore mammario. La metanalisi pubblicata nel 2011 dall’Early breast Cancer Cooperative Group ha confermato che la radioterapia nelle pazienti affette da tumore mammario in stadio iniziale e sottoposte a chirurgia di tipo conservativo riduce il tasso di recidiva locale e si associa ad un significativo miglioramento della sopravvivenza globale [5]. Storicamente, l’impiego dello schema di frazionamento convenzionale (dose totale 45-50 Gy erogata con dose giornaliera di 1,8-2 Gy) ha rappresentato lo standard nella pratica clinica, spesso associato a sovradosaggio sequenziale sul letto operatorio, con conseguente durata complessiva del trattamento radiante pari a 5-7 settimane.

Questo scenario ha subito nel tempo un cambiamento sostanziale sulla base di un progressivo miglioramento delle conoscenze radiobiologiche su tessuti sani e tumorali, [6-8]. Tale evidenza ha supportato l’avvio di studi sulla radioterapia ipofrazionata per il trattamento del tumore mammario.

Nelle ultime decadi sono stati quindi avviati e conclusi 3 studi randomizzati di confronto tra radioterapia convenzionale e ipofrazionata nelle pazienti affette da tumore mammario in stadio iniziale e sottoposte a intervento chirurgico di tipo conservativo.

Il trial canadese ha arruolato 1234 pazienti in stadio T1-T2, N0, R0, confrontando lo schema convenzionale (50 Gy in 25 frazioni) con lo schema ipofrazionato che prevedeva una dose totale di 42.5 Gy in 16 frazioni [9].

I due trials condotti nel Regno Unito, noti con l’acronimo START A e START B, hanno arruolato rispettivamente 2236 e 2215 pazienti in stadio pT1-pT3a, pN0-1. Il frazionamento convenzionale veniva confrontato con due differenti schedule di ipofrazionamento (41.6 Gy in 13 frazioni vs 39 Gy in 13 frazioni) nello START A e con un unico schema di ipofrazionamento (40.5 Gy in 15 frazioni) nello START B [10,11].

I risultati a 10 anni di follow-up di tali studi hanno confermato una reale equivalenza tra il frazionamento convenzionale e l’ipofrazionamento in termini di efficacia e tossicità.

Nel 2011, a seguito dei primi dati di equivalenza risultati dallo studio canadese, la Società Americana di Radioterapia Oncologica (ASTRO) aveva definito delle linee guida in merito all’impiego dell’ipofrazionamento nella pratica clinica, raccomandandone l’utilizzo nelle pazienti con tumore mammario in stadio iniziale sottoposte a sola chirurgia conservativa, di età superiore a 50 anni, per cui non fosse necessaria l’irradiazione delle stazioni linfonodali e che non fossero state sottoposte a chemioterapia adiuvante [12].

Successivamente, con la pubblicazione dei dati maturi dei trials START A e B (tasso di recidiva locale a 10 anni pari a 4.3% nel braccio sperimentale vs 5.5% nel braccio convenzionale) [13] l’impiego dell’ipofrazionamento nelle pazienti con tumore mammario in stadio iniziale è divenuto lo standard di cura nel Regno Unito, con progressiva ulteriore diffusione anche in altri paesi europei e negli USA [14]. Nel 2018 è stato quindi pubblicato l’aggiornamento delle linee guida dell’ASTRO sulla irradiazione della mammella in toto in cui si raccomanda l’utilizzo dell’ipofrazionamento anche nelle donne giovani (età inferiore a 50 anni) e nelle pazienti che abbiano ricevuto un trattamento chemioterapico adiuvante [15].

Tale documento raccomanda inoltre l’uso di due specifiche schedule di frazionamento: 40 Gy in 15 frazioni e 42.5 Gy in 16 frazioni, mutuate rispettivamente dallo START B e dallo studio canadese (evidenza della raccomandazione: Alta, Consensus: 100%).

Qualità dell’evidenza SIGN Raccomandazione clinica Forza della raccomandazione clinica
A Nelle pazienti affette da carcinoma mammario invasivo in stadio iniziale, sottoposte a chirurgia conservativa, per cui non sia necessaria l’irradiazione delle stazioni linfonodali, l’impiego dell’ipofrazionamento rappresenta l’opzione raccomandata indipendentemente da età e trattamenti sistemici adiuvanti Positiva forte

 

  • Carcinoma duttale in situ

Il ruolo della radioterapia ipofrazionata nelle pazienti affette da carcinoma duttale in situ e sottoposte a chirurgia conservativa è stato analizzato in differenti studi osservazionali prospettici o retrospettivi, ma non è stato oggetto di studi randomizzati.

Una delle casistiche più numerose riportate in letteratura è uno studio retrospettivo multicentrico canadese in cui sono stati analizzati dati relativi a 440 pazienti con carcinoma duttale in situ (CDIS) trattate con radioterapia ipofrazionata (dose totale 42.5 Gy in 16 frazioni). Con un follow-up mediano di 4.4 anni, Hathout e collaboratori hanno riportato un tasso di recidiva locale pari al 3.2%, senza impatto significativo in relazione alla esecuzione o meno del sovradosaggio sul letto tumorale [17].

Complessivamente, il tasso di recidive locali relativo alle differenti esperienze pubblicate sull’impiego dell’ipofrazionamento nel CDIS è compreso nel range 0-4.1% a 2-5 anni [18-21].

Al fine di definire indicazione ed appropriatezza del trattamento radiante ipofrazionato in tale sottogruppo di pazienti è stata effettuata una metanalisi di studi osservazionali  il cui esito, seppure in assenza di dati maturi e randomizzati, ha confermato che il trattamento ipofrazionato sembra essere una opzione sicura e proponibile anche nelle pazienti con diagnosi di CDIS [22].

Nel recente aggiornamento delle linee guida dell’ASTRO sulla irradiazione della mammella in toto, il trattamento ipofrazionato è menzionato quale possibile alternativa al trattamento in frazionamento convenzionale nelle pazienti con CDIS, sebbene con qualità di evidenza di grado moderato [15].

È attualmente in corso lo studio multicentrico randomizzato BIG 3-07/TROG 07.01 che ha l’obiettivo di chiarire il ruolo dell’ipofrazionamento e del boost sul letto tumorale nelle pazienti con DCIS non a basso rischio (NCT00470236). I risultati relativi all’end point primario (recidiva locale) saranno disponibili a completamento dei 5 anni di follow up delle pazienti arruolate.

 

 

  • Ruolo del boost

Il razionale dell’impiego nella pratica clinica del sovradosaggio sul letto tumorale (boost) deriva principalmente dalla maggiore incidenza di recidive locali osservate nella regione in prossimità della sede iniziale del tumore [23].

Lo studio EORTC “boost vs no boost” ha dimostrato una incidenza di recidiva locale di malattia a 20 anni pari al 17% nelle pazienti del braccio “no boost” e al 12% in quelle del braccio “boost” (p<0.001). La giovane età e la presenza di CDIS sono risultati essere fattori prognostici statisticamente significativi per recidiva locale e nelle pazienti con entrambi i fattori, la somministrazione del boost ha consentito una riduzione del rischio a 20 anni dal 31% al 15% [24].  Tale studio non prevedeva l’impiego di schedule di ipofrazionamento. Tutte le pazienti arruolate sono state infatti sottoposte a irradiazione in toto della mammella in frazionamento convenzionale e, nel braccio “boost”, irradiazione sequenziale del letto tumorale con ulteriori 16 Gy in 8 frazioni.

Negli studi randomizzati di confronto tra frazionamento convenzionale e ipofrazionamento il boost è stato effettuato in una percentuale variabile di pazienti a discrezione del centro partecipante. Il trial canadese non ha previsto l’impiego del boost mentre nello START A e B rispettivamente il 61% e il 43% delle pazienti hanno ricevuto un boost sequenziale [9-11].

Ad oggi non risultano chiaramente definite la modalità o il regime di dose totale/frazionamento ottimali da adottare qualora si proceda con la somministrazione del boost in associazione agli schemi di ipofrazionamento.

La possibilità di integrare il sovradosaggio effettuandolo in concomitanza alla irradiazione della mammella in toto (simultaneous integrated boost) consentirebbe di ridurre la durata complessiva del trattamento, potenziando il vantaggio radiobiologico conseguente all’impiego dell’ipofrazionamento e il vantaggio dosimetrico in termini di pianificazione [25].

Differenti esperienze mono-istituzionali sono state pubblicate sulla associazione di boost concomitante e ipofrazionamento, riportando ottimi risultati in termini di tossicità acuta, tardiva precoce e cosmesi [26-31].

Sono attualmente in corso trials clinici randomizzati che includono l’integrazione del boost a schedule di ipofrazionamento; in particolare, lo studio RTOG 1005 (USA) prevede la randomizzazione tra regime convenzionale o ipofrazionato (50 Gy in 25 frazioni o 42.7 Gy in 16 frazioni) seguito da boost sequenziale (12-14 Gy in 6-7 frazioni) e schema ipofrazionato (40 Gy in 15 frazioni) associato a boost concomitante (48 Gy in 15 frazioni); il trial inglese IMPORT HIGH è invece uno studio di dose escalation a livello del letto tumorale con ipofrazionamento e boost sequenziale come braccio standard e 2 schedule di boost concomitante (48 Gy o 53 Gy in 15 frazioni)  come braccio sperimentale . I risultati di tali studi saranno utili per definire con chiarezza la modalità di somministrazione (concomitante o sequenziale) e lo schema (dose/frazionamento) da utilizzare nella associazione del boost con le schedule di ipofrazionamento.

 

  1. Irradiazione locoregionale

Studi randomizzati e metanalisi hanno confermato che la radioterapia post mastectomia si associa ad un significativo miglioramento del controllo locale e della sopravvivenza cancro-relata [32-34]; tale evidenza ha condotto ad un progressivo incremento di trattamenti radianti adiuvanti locoregionali (mammella/parete toracica e stazioni linfonodali di drenaggio) nella pratica clinica [35].

Ad oggi, i dati riguardanti l’impiego e gli effetti, in particolare tardivi, della irradiazione locoregionale in regime di ipofrazionamento sono limitati. I trials britannici precedentemente citati includevano solo una piccola percentuale di pazienti sottoposte al trattamento radiante esteso alle stazioni linfonodali (14% e 7% nello START A e B rispettivamente). Singole esperienze monoistituzionali prospettiche e retrospettive hanno valutato in termini di efficacia e tossicità l’applicazione di differenti schedule di ipofrazionamento (42 Gy/15 fr, 37.5-40 Gy/16 fr, 45-46 Gy/20 fr) nel trattamento dei volumi più estesi e complessi che caratterizzano l’irradiazione locoregionale [36-39]. Tali studi non hanno evidenziato una maggiore incidenza di tossicità correlata al regime di ipofrazionamento impiegato, in particolare non è stato riscontrato un incremento di tossicità polmonare, linfedema o plessopatia brachiale.

Recentemente, Wang e collaboratori hanno pubblicato i dati relativi al primo studio randomizzato di fase III (non inferiorità) di confronto tra frazionamento convenzionale (50 Gy in 25 frazioni) e ipofrazionamento (43.5 Gy in 15 frazioni) in pazienti sottoposte a mastectomia con almeno 4 linfonodi positivi o stadiazione del tumore primario pari a T3-4. Non sono state riportate differenza significative tra i due gruppi in termini di recidiva locoregionale a 5 anni o tossicità acuta e tardiva, eccetto per la tossicità cutanea acuta di grado 3, significativamente minore nel braccio dell’ipofrazionamento (3% vs 8%, p<0.0001) [40].

In considerazione di tali evidenze, il regime ipofrazionato con durata complessiva di 3 settimane (15 frazioni) potrebbe a breve divenire opzione terapeutica consigliata anche nel trattamento di pazienti con coinvolgimento linfonodale da sottoporre a trattamento radiante locoregionale.

 

  1. Integrazione con le terapie sistemiche

I trattamenti sistemici adiuvanti, dopo l’intervento chirurgico per carcinoma mammario infiltrante, hanno lo scopo di ridurre il rischio di recidiva e di morte e comprendono chemioterapia, terapia anti-HER2 (human epidermal growth factor receptor 2) e terapia antiormonale [41-44].

La scelta del trattamento da proporre viene effettuata considerando fattori predittivi quali lo stato dei recettori per estrogeno e progesterone ed espressione di HER2, fattori prognostici quali istologia, dimensioni tumorali, numero di linfonodi metastatici, grado di differenziazione, velocità di proliferazione, presenza di invasione vascolare; caratteristiche della paziente quali età, comorbidità e scelte personali e valutazione del rapporto rischi-benefici attesi dai trattamenti proposti.

La pianificazione dei trattamenti post-operatori deve essere integrata, discussa e condivisa tra tutti gli specialisti coinvolti nell’ambito del gruppo multidisciplinare.

Nelle pazienti candidate a trattamento chemioterapico adiuvante, in particolare quando vengono utilizzati schemi contenenti antracicline e/o taxani, con o senza terapia anti-HER2, la radioterapia dovrebbe essere sequenziale, al fine di evitare l’incremento della tossicità ai tessuti cutanei e sottocutanei e sui parenchimi polmonari e cardiaco [45,46] e dovrebbe iniziare dopo circa 4 settimane dalla conclusione del trattamento chemioterapico.

Negli studi di confronto tra trattamento radioterapico a dosaggio standard e radioterapia ipofrazionata, questa è stata somministrata al termine del trattamento chemioterapico adiuvante. Tuttavia, la percentuale di pazienti sottoposte a chemioterapia, arruolate in tali studi è limitata, rispettivamente dell’11%, 36% e 21% nel trial canadese, nello START A e nello START B. Tali percentuali sono coerenti con lo stadio di malattia delle pazienti arruolate, pT1-2 pN0 nel trial canadese e pT1-3a pN0-1 negli studi START. In tutti gli studi, il trattamento chemioterapico adiuvante non ha determinato un incremento di tossicità locale ai tessuti cutanei/sottocutanei e nessun incremento di morbidità a lungo termine nel braccio di trattamento radioterapico ipofrazionato, rispetto al trattamento radioterapico standard [9-11].

Considerando il numero esiguo di pazienti arruolate e la durata limitata del follow-up, le raccomandazioni dell’American Society for Radiation Oncology (ASTRO) del 2011 consigliavano l’utilizzo del trattamento radioterapico ipofrazionato in pazienti non candidate a ricevere un trattamento chemioterapico adiuvante, non potendo escludere un incremento delle tossicità acute e di risultati estetici insoddisfacenti [12].

Nonostante l’assenza di raccomandazioni forti, nell’ultima decade si è osservato un progressivo incremento dell’utilizzo dell’ipofrazionamento, anche dopo trattamento chemioterapico adiuvante [47]. Diversi studi retrospettivi hanno analizzato l’utilizzo del trattamento ipofrazionato in questo gruppo di pazienti, descrivendo un buon outcome estetico (71,8% senza chemioterapia vs 73,6% con chemioterapia) [48] ed un trend in incremento della tossicità cutanea acuta ma non statisticamente significativo (OR 1,5 p=0,08) [49]. Le tossicità acute e tardive ai tessuti cutaneo/sottocutaneo sembrano essere correlate più al volume mammario irradiato ed all’utilizzo del boost che ai trattamenti sistemici ricevuti precedentemente [50].

Alla luce di questi dati e della pubblicazione dell’aggiornamento degli studi START A e START B a 10 anni di follow-up [13], le ultime raccomandazioni dell’ASTRO suggeriscono di utilizzare il trattamento ipofrazionato indipendentemente dalle caratteristiche isto-patologiche della patologia mammaria, dalle dimensioni della mammella e dalla lateralità, dall’età della paziente e dal trattamento sistemico adiuvante proposto [15].

Nei tumori mammari che presentano una iperespressione dell’oncoproteina HER2, lo standard terapeutico consiste nella combinazione della chemioterapia adiuvante con il trastuzumab, un anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato con specificità per il dominio extracellulare di HER2 [44]. La somministrazione di trastuzumab concomitante al trattamento radioterapico con frazionamento standard è considerata efficace e sicura. Dati retrospettivi hanno dimostrato che anche l’associazione di trastuzumab al trattamento radioterapico ipofrazionato non sembra incrementare la tossicità cardiaca, indipendentemente dalla lateralità della neoplasia, dal volume mammario irradiato e dalla precedente somministrazione di antracicline [51-53]. Inoltre, è stata descritta una riduzione della tossicità cutanea G2 (OR 0,4; p=0,03) con un meccanismo ancora non noto. Una valutazione preliminare ha ipotizzato un potenziale coinvolgimento della via di trasduzione del segnale di HER2 nel pathway di differenziazione dei cheratinociti [51].

Nelle pazienti candidate a ricevere un trattamento antiormonale non preceduto da chemioterapia, anche in assenza di dati derivanti da studi clinici randomizzati, si ritiene comunque ragionevole avviare il trattamento radioterapico entro 8-24 settimane dall’intervento chirurgico, previa guarigione completa della ferita. Non è noto un incremento della tossicità da trattamento radioterapico, sia standard che ipofrazionato, nelle pazienti che assumono contemporaneamente terapia antiormonale con antiestrogeno o con inibitore dell’aromatasi per cui tale associazione è da ritenersi sicura ed efficace.

Recentemente sono stati pubblicati i dati del primo studio randomizzato di non inferiorità di fase 3 di confronto tra trattamento radioterapico convenzionale ed ipofrazionato in pazienti cinesi sottoposte a mastectomia con stadio di malattia pT3-4 o più di 4 linfonodi ascellari positivi. Il 100% delle pazienti arruolate nello studio hanno ricevuto un trattamento chemioterapico, nel setting adiuvante o neoadiuvante, sia nel braccio di trattamento con radioterapia a dosaggio standard che ipofrazionato. Considerando l’assenza di differenze significative in tossicità acuta, tossicità tardiva, outcome estetico ed incidenza di recidiva locoregionale, si può ritenere sicura la somministrazione di chemioterapia anche in questo gruppo di pazienti [40].

Concludendo, le evidenze attualmente disponibili supportano sia in termini di sicurezza che di efficacia la associazione di trattamento chemioterapico, associato o meno a terapia anti-HER2, e trattamento radioterapico ipofrazionato sequenziale in pazienti sottoposte ad intervento chirurgico conservativo. La scelta invece di proporre un trattamento radioterapico ipofrazionato dopo mastectomia deve essere discussa con la paziente, alla luce dell’assenza di forti raccomandazioni.

 

  1. Irradiazione parziale della mammella (PBI)

L’irradiazione parziale della mammella (partial breast irradiation, PBI) è un approccio terapeutico che prevede la radioterapia su un volume ridotto di mammella comprendente il letto operatorio. Essa permette un tempo di trattamento complessivo minore (si tratta spesso di una modalità di trattamento accelerato), una diminuzione del tessuto mammario sano irradiato ed una conseguente potenziale riduzione degli effetti collaterali del trattamento; un risvolto pratico dell’impiego di tale modalità è la possibile riduzione delle liste di attesa in radioterapia. Pur non rappresentando attualmente lo standard dopo chirurgia conservativa, la PBI in pazienti ben selezionate e a basso rischio di recidiva, garantisce un controllo locale non inferiore rispetto alla irradiazione di tutta la ghiandola mammaria (whole breast irradiation, WBI) ed un miglior profilo di tossicità. La PBI é un trattamento che puó essere erogato utilizzando differenti tecniche, come radioterapia a fasci esterni (EBRT), brachiterapia (BT) e radioterapia intraoperatoria (IORT/IEORT), che sono state oggetto di studi prospettici di fase II e III.

Il ruolo della PBI è stato studiato in ampi studi prospettici di fase 3 con tecniche differenti [54-61]. La maggior parte dei risultati pubblicati hanno dimostrato risultati contrastanti in termini di recidive locali di malattia, senza però differenze statisticamente significative in termini di sopravvivenza globale nel confronto con la WBI [62].

Il trial  IMPORT LOW [54], studio randomizzato di non inferiorità a 3 bracci con schema ipofrazionato di 15 frazioni (WBI  a 40 Gy senza boost versus WBI a  dose ridotta  di 36 Gy con boost fino a 40 Gy versus PBI a 40 Gy) ha arruolato 2018 pazienti affette da neoplasia mammaria in fase iniziale di tipo luminale, perfettamente in linea con le raccomandazioni Groupe Europeen de Curietherapie-European Society for Therapeutic Radiology and Oncology (GEC-ESTRO) [63] e con la consensus aggiornata nel 2017 dall’ASTRO [64]. La maggior parte delle pazienti arruolate presentavano stato linfonodale pN0 (98%), grado tumorale 1-2 (91%), recettore per gli estrogeni (ER) positivo (95%), HER2 negativo (94%).

L’IMPORT LOW rappresenta un esempio paradigmatico di come una adeguata selezione delle pazienti permetta un trattamento  PBI con risultati positivi (tasso di recidive locali: 0.5% con PBI versus 1.1% con WBI; p=0.420) . Inoltre, la PBI ha portato ad un miglior risultato cosmetico rispetto alla WBI, con differenze statisticamente significative riguardo a cambiamenti dell’aspetto della mammella (modifiche moderate/marcate: 15 % con PBI versus 27 % con WBI, p<0.0001) e all’indurimento dei tessuti (ad un follow-up mediano di 72 mesi), utilizzando una tecnica semplice di radioterapia ad intensità modulata field-in-field, ampiamente riproducibile nei centri di radioterapia.

Il trial monocentrico randomizzato dell’Università di Firenze [55] ha dimostrato un’equivalenza in termini di recidiva locale tra pazienti trattate con PBI accelerata (30 Gy in 5 frazioni), con tecnica ad intensità modulata (intensity-modulated radiotherapy, IMRT) e pazienti trattate con WBI con tecnica 3-D conformazionale (incidenza di recidive locali: 1.5% con PBI versus 1.4% con WBI; p=0.86). Inoltre, nel braccio PBI si è osservata una significativa riduzione della tossicità cutanea e un migliore recupero della qualità della vita rispetto al braccio WBI [65].

Recentemente, Vicini et al.[61] ha riportato i risultati dell’ NRG Oncology/NSABP B-39/RTOG 0413 trial, che ha randomizzato  4216 pazienti a ricevere PBI (con radioterapia a fasci esterni o brachiterapia) o WBI. L’incidenza cumulativa di recidiva nella mammella omolaterale a 10 anni è stata del 4,6% (95% CI 3,7–5,7) per le pazienti PBI and 3,9% (95% CI 3,1–5)  per le pazienti WBI (HR 1,22; 90% CI 0,94–1,58), non raggiungendo i criteri di equivalenza in base a quanto pianificato nel disegno dello studio.

Il RAPID trial  invece, studio randomizzato multicentrico, ha dimostrato la non inferiorità in termini di recidiva locale delle pazienti irradiate con PBI (38,5 Gy in 10 frazioni bi-gioranliere) rispetto alle pazienti trattate con WBI [60].

Questi dati sono in linea con i risultati del trial GEC-ESTRO, dove la PBI è stata eseguita con brachiterapia multicatetere. In pazienti selezionate, affette da tumore mammario in fase iniziale dopo chirurgia conservativa della mammella, il tasso di recidive locali a 5 anni con PBI era di 1.44% rispetto a 0.92% ottenuto con WBI (p= 0.42) [57]. Inoltre, la tossicità cutanea a lungo termine è risultata a favore della PBI, con differenze statisticamente significative rispetto alla WBI [66].

Qualora disponibile, ed in presenza di un’elevata expertise, la brachiterapia multicatetere rappresenta un approccio di elezione per effettuare la PBI, con robusti dati di letteratura in termini di controllo locale e profilo di tossicità.

Al contrario, gli studi clinici randomizzati pubblicati che hanno utilizzato la IORT con elettroni o fotoni (IOERT/kV-IORT) hanno ottenuto risultati non del tutto conclusivi sulla pari efficacia del trattamento di PBI rispetto alla WBI [58,59].

Ad un follow-up mediano di 5.8 anni, il trial ELIOT, che ha investigato l’efficacia del trattamento intraoperatorio con elettroni ha dimostrato un rapporto di rischio di 9.3 a sfavore della IOERT rispetto alla WBI, con tassi di LRR 4.4% nel braccio IOERT vs 0.4% nel braccio WBI (p<0.0001) [58]. Tuttavia, un’analisi critica della selezione delle pazienti del trial, ha evidenziato una percentuale consistente di tumori con alti fattori di rischio (dimensioni della neoplasia superiori a 2 cm, 4 o più linfonodi ascellari positivi, G3 e sottotipo molecolare triple negative), la cui inclusione può aver significativamente influenzato i risultati finali dello studio [67]. Infatti, analisi sulla popolazione non inclusa nel trial, hanno mostrato che le pazienti categorizzate come pazienti ideali secondo le linee guida ASTRO e ESTRO avevano una incidenza di recidive locali a 5 anni ritenuta accettabile (1.5%-1.9%) [68].

I risultati preliminari del trial di non-inferiorità TARGIT A [59], che ha investigato l’efficacia dei fotoni a bassa energia, sono stati pubblicati con un follow-up mediano immaturo (2.5 anni), ed hanno mostrato complessivamente un significativo aumento della incidenza di recidive locali nel braccio kV-IORT rispetto al braccio WBI (3.3% versus 1.3%; p=0.042). Inoltre i risultati dello studio sono stati ampiamente dibattuti dalla comunità scientifica, che ha fortemente criticato la prematurità della pubblicazione e – soprattutto – alcune assunzioni statistiche alla base del disegno del trial, che ne hanno indebolito la solidità scientifica [69].

La IOERT è, in ogni modo, da ritenere, con i dati pubblicati e attualmente disponibili, un’opzione ragionevole per il trattamento di pazienti altamente selezionate secondo le raccomandazioni internazionali ASTRO e GEC-ESTRO di radioterapia oncologica [63,64], Può inoltre essere impiegata per il sovradosaggio (boost) sul letto operatorio. Al contrario la kV-IORT, per la contestata qualità scientifica ed acerba maturità dei risultati pubblicati [69], non è raccomandata come tecnica per PBI, se non all’interno di studi clinici.

Il recente ed elevato livello di evidenza fornito dal trial IMPORT LOW ha dimostrato come una adeguata selezione delle pazienti sia essenziale per ottenere una non-inferiorità della PBI nei confronti della WBI per quanto riguarda il controllo locale di malattia. Ad integrazione della stadiazione, le caratteristiche biologiche della malattia, lo stato generale e le comorbidità delle pazienti, oltre all’eventuale miglioramento della qualità della vita, sembrano pertanto rivestire un ruolo chiave nella scelta del miglior trattamento con radioterapia adiuvante [70].

Come conseguenza, nel 2016 la Consensus del Royal College of Radiologist ha affermato che nell’esecuzione della PBI il regime a fasci esterni adottato nel trial IMPORT LOW, cosi come la brachiterapia multicatetere descritta nel trial GEC-ESTRO, possono essere considerati per le pazienti con età ≥50 anni, tumore ≤3 cm, linfonodi negativi, grado 1-2, ER positivo, HER2 negativo, con margini chirurgici di ≥2 mm, non ad istologia lobulare.

Seppure alcuni dei suddetti trials abbiano incluso nella randomizzazione anche pazienti più giovani, il numero ridotto di queste ultime non consente di trarre conclusioni definitive sull’indicazione a PBI in questo sottogruppo.

La maggior parte degli studi di fase 3 pubblicati hanno dimostrato risultati quantomeno equivalenti in termini di tossicità e cosmesi, ad eccezione del RAPID trial, che ha riportato un incremento del tasso di tossicità tardiva (G≥2: 346, 32%] nel gruppo PBI vs 142, 13%] nel gruppo WBI) e cosmesi avversa a 7 anni nelle paziente sottoposte a PBI. Possibili cause sono da ricercare nell’elevato volume di mammella residua omolaterale ricevente il 95% della dose di prescrizione (nonostante, secondo protocollo, esso avrebbe dovuto essere limitato a <35%) e nel maggiore effetto biologico al bi-frazionamento giornaliero sui tessuti sani, con inadeguato tempo di recupero tra una frazione e l’altra [7].

I dati derivanti dagli studi randomizzati in corso (SHARE NCT01247233, IRMA NCT01803958) e dai follow-up a lungo termine dei trials pubblicati saranno fondamentali nel confermare il ruolo della PBI come standard clinico in alternativa alla WBI.

Attualmente, i criteri di inclusione del trial IMPORT LOW, analogamente alle raccomandazioni GEC-ESTRO ed ASTRO, dovrebbero essere utilizzati nella pratica clinica e definitivamente integrati nel processo decisionale del Radioterapista Oncologo per il trattamento mediante PBI delle pazienti affette da neoplasia mammaria sottoposte a chirurgia conservativa e candidate a radioterapia adiuvante

 

Nella selezione delle pazienti candidabili a PBI sono raccomandati i seguenti criteri:

– Criteri di inclusione come da IMPORT LOW trial [54]  e GEC-ESTRO trial [57].

– Pazienti a basso rischio secondo le raccomandazioni del Consensus ESTRO [63].

– Pazienti a basso rischio secondo le raccomandazioni aggiornate nel 2017 del Consensus ASTRO [64].

 

Qualità dell’evidenza SIGN Raccomandazione clinica Forza della raccomandazione clinica
A Pazienti con età ≥50 anni, affette da carcinoma mammario invasivo in stadio iniziale (≤3cm, pN0), grado nucleare 1-2, ER+, HER2 negativo, sottoposte a chirurgia conservativa con almeno 2 millimetri come margini chirurgici , possono essere considerate per PBI Positiva forte

 

  • Ruolo del patologo

(definizione delle caratteristiche istologiche e biomolecolari delle pazienti candidabili a PBI)

Il ruolo del patologo nella diagnosi delle neoplasie mammarie ha avuto un importante cambiamento negli ultimi decenni, secondario alla introduzione di nuove tecniche di diagnosi istologica e di biologia molecolare.

In fase pre-operatoria il patologo deve confrontarsi con il radiologo per orientare correttamente l’approccio chirurgico e, dopo l’intervento, il trattamento più adeguato, locale e/o sistemico, viene scelto sulla base della diagnosi istologica.

Dalle raccomandazioni fin’ora citate per la PBI emerge che, dal punto di vista anatomo-patologico, sia importante:

  • Definizione dell’istotipo. Viene infatti esplicitato in molte raccomandazioni che la PBI non dovrebbe essere effettua nel caso di istologia lobulare. Ciò è dovuto al fatto che questi tumori tendono ad essere multifocali e multicentrici e spesso i focolai satelliti o periferici possono non essere identificati in modo agevole con tecniche di imaging. Alcuni studi tuttavia sostengono che la presenza di una recidiva non sia correlata all’istotipo lobulare [71]; tale tumore viene quindi contemplato (sia per ASTRO che per GEC-ESTRO) nel sottogruppo di pazienti in cui la PBI dovrebbe essere indicata “con cautela”.

La PBI è invece ammessa in pazienti con carcinoma duttale o con istotipi speciali a prognosi favorevole quali il tubulare ed il mucinoso.

  • Valutazione dell’estensione del tumore e dello stato linfonodale. La eleggibilità alla PBI è infatti prevista solo per i tumori inferiori a 2 cm ed N0 secondo ASTRO e per i tumori fino a 3 cm ed N0 secondo GEC-ESTRO. E’ opportuno sottolineare però come secondo le raccomandazioni ASTRO, nel sottogruppo di pazienti da sottoporre “con cautela” alla PBI, siano previsti anche i tumori T2, quindi estesi oltre i 3 cm. Viceversa secondo GEC-ESTRO sono previsti, sempre nel sottogruppo da sottoporre “con cautela” alla PBI, anche pazienti con pN1mic o pN1a, a patto che sia stata eseguita la dissezione ascellare.
  • Valutazione dell’invasione vascolare. E’ necessario distinguerla da fenomeni di tipo artefatti da fissazione e, possibilmente, riportarla nel referto come focale o diffusa. Nel primo caso le raccomandazioni ASTRO, ma non GEC-ESTRO, inseriscono la paziente nel sottogruppo in cui la PBI dovrebbe essere indicata “con cautela”.
  • Misurazione della componente di carcinoma duttale in situ (CDIS). Tale definizione dovrebbe essere esplicitata sia in caso di lesione principale, sia nel caso in cui tale componente accompagni il tumore infiltrante. La candidabilità dei CDIS alla PBI è contemplata solo nella versione delle raccomandazioni ASTRO aggiornata nel 2017 e solo per i casi screen detected, < 2.5 cm, di grado nucleare basso o intermedio. Lesioni in situ fino a 3 cm sono solo ammesse nel gruppo delle pazienti da sottoporre “con cautela” alla PBI. Diventa quindi di fondamentale importanza una correlazione radio-istologica multidisciplinare, associata ad un eventuale utilizzo delle macro-sezioni.
  • Valutazione della multicentricità e della multifocalità. Anche queste valutazioni non possono prescindere da una stretta correlazione radio-istologica multidisciplinare. La multicentricità è ovviamente un criterio di esclusione alla PBI. La multifocalità è ammessa solo nel gruppo di pazienti da sottoporre “con cautela” a tale procedura, a patto che i foci aggiuntivi non siano distanti di più di 2 cm dalla lesione principale.
  • Misurazione dei margini di resezione. Essi devono essere di almeno 2 mm nei tumori infiltranti (sia per ASTRO che per GEC-ESTRO) nel caso di eleggibilità alla PBI, mentre di almeno 3 mm in caso di lesione in situ (per ASTRO). Le misurazioni andrebbero quindi effettuate sia a fresco che sul pezzo fissato, facendo estrema attenzione alla penetrazione della china nel tessuto, che sovente può causare errori di interpretazione sulla corretta distanza dai margini di resezione.
  • Valutazione del recettore estrogenico. La positività al recettore garantisce infatti secondo ASTRO la candidabilità alla PBI, non prevista invece da GEC-ESTRO, che non pone limitazioni in base all’espressione di questo marcatore. ASTRO però contempla nel sottogruppo da sottoporre “con cautela” alla PBI anche pazienti con tumori ER negativi.

Nei documenti di riferimento non vengono invece contemplati il grado istologico, né le altre caratteristiche biologiche del tumore, come lo stato di HER2 o il Ki67. Per quanto riguarda il grado, pur riconoscendo una maggior aggressività biologica e tendenza a recidivare dei G3 rispetto ai G2-G1, non ci sono ancora dati convincenti ad escludere questa entità dalla PBI. Effettivamente è noto come anche i tumori G1 possano essere multifocali e la maggior parte dei tumori lobulari è un G1-G2. Stabilire quindi un criterio di questo tipo potrebbe essere contraddittorio rispetto agli altri. Tuttavia ulteriori studi sono necessari a questo proposito.

I dati che riguardano invece l’assetto immunofenotipico e la classificazione molecolare surrogata (luminal, HER2, tripli negativi) non sono stati ancora inseriti quale criterio distintivo in nessuna raccomandazione. Tuttavia, uno studio retrospettivo recentemente pubblicato [72] indica nei tumori HER2 positivi una propensione più elevata alla recidiva locale e suggerisce per questo di inserire tra i parametri di selezione delle pazienti anche la classificazione molecolare, surrogata con metodiche di immunoistochimica.

 

  • Ruolo dell’imaging

(definizione delle caratteristiche radiologiche delle pazienti candidabili a PBI)

Occorre evidenziare che, relativamente al ruolo dell’imaging, esiste una notevole discrepanza tra le linee guida pubblicate dalle maggiori società internazionali e che né  le linee guida ASTRO [64], né quelle GEC-ESTRO [63] supportano l’utilizzo sistematico della risonanza magnetica (RM) mammaria con mezzo di contrasto nella selezione delle pazienti candidate a PBI. Al contrario, il Working Group della European Society of Breast Cancer Specialists (EUSOMA) [73] raccomanda l’esecuzione di tale indagine nelle pazienti candidabili a PBI sulla base dell’imaging convenzionale (mammografia ed ecografia), con grado di raccomandazione medio-alta (DoR-B), nonostante il livello di evidenza a sostegno della raccomandazione sia basso (LoE-3b).

Tale raccomandazione si basa su alcuni studi retrospettivi in cui è stato evidenziato che circa il  5–10% dei pazienti inizialmente candidabili per PBI non lo erano per evidenza di malattia multicentrica alla RM.

Una recente metanalisi [74] ha valutato i dati relativi a 6 studi su un totale di 3136 pazienti. Dei pazienti ritenuti eleggibili alla PBI sulla base dell’esame clinico e dell’imaging convenzionale, l’11% (IC 95% 6–19%) è risultato non più eleggibile sulla base dei reperti RM. I fattori predittivi di ineleggibilità alla PBI dopo RM sono risultati: lo stadio tumorale  ≥pT2 (odds ratio [OR] 8.8, IC 95% 4.7–16.7]); l’istotipo lobulare (OR 3.0, IC 95% 1.6–6.6]); lo stato menopausale (OR 1.9, IC 95% 1.3–2.6]); la componente duttale infiltrante (OR 1.6, IC 95% 1.0–2.4).

Lo stesso fenomeno è stato descritto recentemente da Chin e collaboratori [75]  in un’analisi retrospettiva su 347 pazienti affette da tumore mammario e sottoposti a RM  preoperatoria. Il numero di pazienti risultati eleggibili alla PBI alla valutazione standard per ciascuna delle linee guida ASTRO 2009, ASTRO 2016, GEC-ESTRO, ABS ed ASBS è stato valutato e confrontato: ne è emersa un’elevata variabilità tra le linee guida. Successivamente, è stata valutata l’utilità della RM nell’identificazione di foci occulti per ciascuna delle popolazioni selezionate. Per le cinque coorti selezionate, la frequenza di tumori occulti all’imaging convenzionale è stata variabile tra il 13% e il 20%. La RM pretrattamento è risultata di maggiore utilità nelle pazienti selezionate secondo linee guida meno selettive (p = 0.04)In conclusione, le evidenze attualmente disponibili dimostrano che l’utilizzo della RM identifica con maggiore accuratezza rispetto all’imaging convenzionale eventuali fattori di ineleggibilità per PBI. In assenza di dati di outcome, la RM non può essere considerata mandatoria nella selezione al trattamento in fase pre-operatoria. Tuttavia, potrebbe essere uno strumento utile nella selezione delle pazienti candidabili a PBI, in particolare con IORT, dove non sono utilizzabili parametri anatomo-patologici di selezione derivanti dall’analisi del pezzo operatorio.  .

 

  • Ruolo del chirurgo

(chirurgia oncoplastica e implicazioni nella identificazione dei volumi da irradiare)

L’irradiazione del letto tumorale, esclusiva (PBI) o integrata alla irradiazione in toto della mammella (boost), rappresenta una parte importante del trattamento radiante adiuvante nelle pazienti affette da tumore mammario e sottoposte ad intervento chirurgico di tipo conservativo.

Ad oggi, non risultano chiaramente definiti i criteri per una corretta identificazione del volume del letto tumorale, né quale sia la migliore tecnica di irradiazione da impiegare. Una revisione sistematica della letteratura ha confermato che nella gran parte degli studi pubblicati non siano stati riportati e descritti i dettagli relativi alla radioterapia sul letto tumorale [76].

Il posizionamento di reperi, quali clips metalliche, rappresenta una delle metodiche più efficaci per marcare le pareti del letto tumorale in modo da poterne favorire una accurata definizione nella fase di simulazione del trattamento radiante [77-79]. Nell’ultimo decennio, il crescente interesse per il risultato estetico dopo chirurgia conservativa ha determinato un’ampia diffusione ed integrazione di innovative tecniche chirurgiche di ricostruzione oncoplastica, in particolare nelle donne giovani ed a maggior rischio di recidiva. Tali tecniche implicano un ri-arrangiamento parenchimale (con conseguente migrazione delle clips posizionate in corso di BCS) che può a volte rendere difficoltosa o inadeguata la identificazione del volume del letto tumorale. Diviene pertanto necessaria ed auspicabile la comunicazione e la collaborazione tra senologo, radioterapista oncologo e chirurgo plastico nel definire, in ambito multidisciplinare peri-operatorio, la più appropriata strategia da adottare al fine di garantire il miglior risultato estetico senza alterare la “sicurezza” oncologica del trattamento radiante adiuvante [80].

 

 

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By | 2020-05-10T10:48:14+00:00 Maggio 10th, 2020|Uncategorized|0 Comments

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